Ho cercato di raccontare la Cappadocia dall’alto della mongolfiera e attraverso la fiaba per mia nipote di sette anni… eppure ancora ho la sensazione di non aver detto tutto. Non ho ancora esaurito le parole ma non posso annoiarvi. Mi lascio trasportare dai flash della memoria e seguo per quanto possibile lo stream dei miei pensieri.
– chiudo gli occhi e sono dentro una città sotterranea. Ce ne sono una trentina nell’Anatolia centrale, costruite per fuggire agli attacchi dei Persiani e poi utilizzate dai bizantini per nascondersi dagli Ottomani. Io sono dentro una città costruita su 8 livelli di profondità, come fossero i piani di un grattacielo rovesciato. Ci sono innumerevoli cunicoli e stanze/appartamento che garantivano la discrezione per ogni nucleo familiare. Ci sono le cucine e i bagni per poter accogliere fino a 3mila persone. Oltre a realizzare un efficiente sistema di aerazione, gli astuti profughi perseguitati potevano accendere i loro fuochi indisturbati, perché il tufo che riveste le pareti della città assorbe il fumo. Così nessun Persiano o nessun Ottomano in superficie si accorgeva della vita sotto terra. Kaymakli è il nome della città segreta che ho visitato, sconsigliatissima se troppo affollata o se soffrite di claustrofobia: l’aria non manca, ma ci si rende conto di come l’umanità riesca ad organizzarsi per anni pur privandosi della luce, del vento e dello spirito di libertà che deriva da una scontata passeggiata all’aria aperta.
– Apro e richiudo gli occhi: sono a Goreme. Sono in una chiesa antichissima. E’ una chiesa dentro ad una grotta, un camino di fata svuotato e adattato al culto dei cristiani. Le pareti sono affrescate con colori sgargianti, preservati nei secoli grazie all’assenza di luce. Esco e passeggio in un museo a cielo aperto…è la città-monastero che accoglieva gli asceti cristiani del Medio Oriente. Cappelle, chiese e celle monastiche dentro un agglomerato di coni di tufo; tutte le cavità raccontano con i disegni storie cristologiche o racconti di blasonati santi: i più ricorrenti San Giorgio, sempre con l’immancabile drago, e Sant’Onofrio, l’anacoreta egiziano vestito dai suoi capelli. M’innervosisco appena evoco questo posto: infatti la memoria non richiama solo le immagini ma trasferisce anche le emozioni collegate ai ricordi, ed io lì ero tremendamente infastidita dalle masse di turisti, specie dagli italiani che si vantavano di fotografare e riprendere gli affreschi secolari nonostante i divieti. Quel posto mi ricorda la stupida mediocrità del turismo di massa.
– Scaccio il fastidio con un battito di palpebre: sono davanti all’ingresso di un Hotel di tufo. Sventola la bandiera della Turchia sopra il cappuccio di roccia del cunicolo. Lo sfarzo dei tappeti e le innaturali comodità di finestre e porte mi allontanano e mi conducono in un luogo con la stessa struttura ma completamente selvaggio. Guvercinlik, la valle dei piccioni, nei dintorni di Goreme. Mi arrampico per l’esplorazione e con la mia solita incoscienza indosso delle infradito… al ché sudo, scivolo, mi aggrappo e poi mi arrendo a metà strada, mi siedo in un angolo e mi giro all’orizzonte… e l’emozione del ricordo stavolta è forte e indelebile: la valle incantata delle fate si estende per chilometri, è suggestiva, è lunare… da qualunque prospettiva, valli, chiese o mongolfiere, la Cappadocia s’imprime nel ricordo come una cornice fiabesca nell’esperienza dei viaggiatori.